LA FORZA
DELLE IMMAGINI Ci sono fenomeni che per la loro natura non possono essere svelati dalla fotografia in quanto non offrono una corrispondenza fisica tra il termine che li definisce e la loro manifestazione empirica. Ça-a-eté, il noto norma barthesiano non può quindi essere soddisfatto in questi casi. Ovvero non è possibile fotografare qualcosa che non si trovi davanti all’obiettivo della fotocamera. Questo limite viene superato ricorrendo a un linguaggio simbolico cosa che, in ambito documentario, si traduce nel registrare le conseguenze prodotte dall’oggetto della narrazione. È il caso di fenomeni come i cambiamenti climatici. Quello che l’obiettivo può fissare sono gli effetti che derivano da questi fenomeni a lungo termine di rivoluzione delle temperature e dei modelli meteorologici. Il giornalista di penna, il narratore più in generale, se mette da parte la deontologia professionale, può anche rifarsi a testimonianze raccolte a distanza dai luoghi in cui si svolgono gli eventi. Al fotografo invece non è dato questo privilegio. Il fotografo è costretto dalla natura stessa del suo lavoro ad andare sul posto e, forse, anche da questo deriva il coinvolgimento dello spettatore al momento di confrontarsi con le immagini. La fotografia ferma l’istante e lo cristallizza offrendolo allo sguardo e regalandogli il tempo dell’osservazione e dell’attenzione strappata all’indifferenza. È un potere quasi magico fatto di un’immediatezza figlia della sintesi, un potere che da quasi duecento anni continua a essere esercitato, nonostante il progresso ci abbia regalato ben più sofisticati mezzi di comunicazione. Gli anni vissuti nell’incubo della pandemia hanno però bloccato un mondo ormai avvezzo alla facilità degli spostamenti intercontinentali. Si è creato quindi un ostacolo insormontabile alla documentazione degli effetti dei cambiamenti climatici e del lavoro fatto per ridurne i devastanti effetti laddove questi incidono in modo più evidente. Questo è accaduto anche nel caso del Myanmar, paese estremamente vulnerabile rispetto ai cambiamenti climatici tanto da essere classificato al secondo posto, nel Global Climate Risk Index, al quarto in termini di esposizione ai rischi naturali e al dodicesimo nell’Index of Risk Management (INFORM). Questa limitazione al movimento, resa cogente dal sovrapporsi di altre problematiche, ha impedito di effettuare una documentazione sul campo dei progetti portati avanti da CESVI in Myanmar, dove pur continuando gli operatori già presenti in loco a lavorare per il miglioramento delle condizioni di vita e produzione agro alimentare nella Dry Zone, non è stato possibile inviare un fotografo a comprovarne l’azione. A fronte dell’importanza del lavoro svolto si è comunque deciso di ricorrere alla potenza evocativa della fotografia per accendere una luce sul lavoro svolto da CESVI in Myanmar. Queste immagini infatti sono state scattate nella Dry Zone, dove CESVI tuttora opera, durante missioni precedenti, ma consentono di comprendere l’importanza del lavoro svolto da CESVI per garantire il miglior utilizzo delle risorse nonostante le condizioni rese sempre meno favorevoli dai cambiamenti climatici. Sandro Iovine THE POWER OF IMAGES There are phenomena that by their nature cannot be revealed by photography as they do not offer a physical correspondence between the term defining them and their empirical manifestation. Ça-a-eté, the well-known Barthesian norm, cannot be fulfilled in such cases. That is, it is not possible to photograph something that is not in front of the camera lens. This limitation is overcome by resorting to a symbolic language which, in the documentary sphere, translates into recording the consequences produced by the object of narration. This is the case with phenomena such as climate change. What the lens can fix is the effects of these long-term phenomena of revolutionizing temperatures and weather patterns. The journalist, the storyteller more generally, if he or she sets aside professional deontology, can also draw on testimonies collected at a distance from the places where the events take place. The photographer, on the other hand, is not given this privilege. The photographer is compelled by the very nature of his work to go on the ground and, perhaps, the involvement of the viewer when confronted with the images also stems from this. Photography captures the moment and crystallises it, offering it to the gaze and giving it the time of observation and attention wrested from indifference. It is an almost magical power made up of an immediacy resulting from synthesis, a power that has continued to be exercised for almost two hundred years, despite the fact that progress has given us far more sophisticated means of communication. However, the years lived in the nightmare of the pandemic have halted a world now accustomed to the ease of intercontinental travel. This has created an insurmountable obstacle to documenting the effects of climate change and the work being done to reduce its devastating effects where they are most evident. This was also the case with Myanmar, a country so vulnerable to climate change that it is ranked second, in the Global Climate Risk Index, fourth in terms of exposure to natural hazards, and twelfth in the Index of Risk Management (INFORM). This limitation on movement, made necessary by the overlapping of other issues, made it impossible to carry out field documentation of the projects carried out by CESVI in Myanmar, where, although the operators already on the ground continue to work to improve living conditions and agro-food production in the Dry Zone, it was not possible to send a photographer to prove their action. Given the importance of the work carried out, however, it was decided to rely on the evocative power of photography to shine a light on CESVI’s work in Myanmar. These images were in fact taken in the Dry Zone, where CESVI still operates, during previous missions, but they allow us to understand the importance of the work done by CESVI to ensure the best use of resources despite conditions made less and less favourable by climate change. Sandro Iovine |